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Appuntamento del giovedì, come sempre, con le recensioni di Massimo Comi e oggi ci delizia raccontandoci dell’album strumentale di Alberto Morelli, “Duna”.
Imperdibile, assolutamente da leggere ma soprattutto da ascoltare.
Potete trovare la sua musica su tutti i Digital Store.

Devo ammettere che è la prima volta che mi trovo di fronte ad un album interamente strumentale da recensire, e la cosa mi incuriosisce e mi stuzzica da un lato, ma mi intimorisce dall’altro. Saprò trovare le parole giuste per interpretare ciò che le note di Alberto Morelli vogliono comunicarci? Il segreto, secondo me, è lasciarsi trasportare dalle emozioni: solo così si potrà scrivere una recensione che possa cogliere almeno in parte il senso riposto nei meandri musicali del disco.

Il titolo mi ha fatto pensare da subito al deserto, quindi a qualcosa di arido, sabbioso, estremamente caldo e assolato, in cui però a volte può capitare di trovare un’oasi rinfrescante. Può essere che l’album viva su questo contrasto fra caldo e freddo, fra aridità e frescura: solo l’ascolto potrà confermare o smentire questa ipotesi.

La prima canzone, intitolata come il disco, ci porta in un’atmosfera tipicamente gitana, con i suoi suoni selvaggi, aggressivi, maestosi, molto corposi e pieni. Devo dire che, ascoltandola, mi è venuta subito alla mente l’immagine di una danzatrice del ventre, intenta, con i suoi movimenti sinuosi, a stregare il proprio pubblico, esibendosi in un ballo sensuale e provocante. Mi viene da dire che mancano solo le urla e le acclamazioni dei membri delle tribù del deserto per completare l’opera.

Il nostro artista dà prova di una grande abilità nel suonare la chitarra flamenca: abbiamo comunque, nello sviluppo del brano, una tessitura sonora formata dal suono di più chitarre, alcune delle quali fanno da sfondo agli assoli solistici della chitarra principale, che immagino essere quella del nostro Alberto.

Le chitarre sono accompagnate da strumenti oserei dire primitivi, che riportano alle radici della storia umana e del suo amore per la musica: mi sembra di sentire fiati, percussioni, strumenti a corda, che costituiscono una base melodica molto efficace, sulla quale si può installare con buoni risultati l’architettura chitarristica, che prevale e predomina su tutto.

In questo caso, il titolo “Duna” mi induce a pensare certamente al deserto, ma la grinta e l’espressività della melodia mi riportano alla freschezza di un’oasi, nella quale ci si può rinfrescare sia con l’acqua che con il ballo e all’atmosfera danzereccia a cui non si può resistere, che ci induce a battere il piede e a scuotere la testa, al ritmo a tratti frenetico, trascinante del pezzo, che sembra non concedere un attimo di tregua, un attimo di riposo, che scalda i cuori e rinvigorisce l’anima, nutrendola di una musica appetitosa e invitante, una portata che non si può fare a meno di gustare in tutte le sue sfumature, che ci riempie il palato di buoni sapori, affascinanti proprio perché magari sconosciuti.

A livello di complessità delle soluzioni melodiche adottate, mi sono venuti in mente i Gipsy Kings, che hanno fatto del suono delle chitarre flamenche il proprio cavallo di battaglia, sempre in grado di creare un senso di assoluta libertà, di assenza di legame con ciò che circonda, tanto che, se si chiudono gli occhi e ci si fa trascinare dal ritmo, si può arrivare ad immaginare di librarsi nel cielo, volando con l’immaginazione tra le nuvole e arrivando vicini al sole, senza mai scottarsi.

Il secondo brano, intitolato “Di Verde”, mi ha fatto pensare un’altra volta ad un’oasi rinfrescante, collocata in mezzo alla sabbia e in grado di dare ristoro ai viandanti assetati e accaldati. Il verde mi ha riportato alla mente l’immagine di alcuni alberi di palma, che muovono le proprie fronde al ritmo del vento, le cui folate creano un momento di intenso respiro, in cui si può rifiatare, magari dopo un lungo viaggio in carovana.

La prima parte della canzone sembra creare un senso di aspettativa, di pathos, dando l’impressione che qualcosa stia per accadere e che manchi veramente poco alla sua manifestazione più palese.

Con lo svolgersi della melodia, il senso di aspettativa lascia il posto ad un senso oserei dire di regolarità, di ritmica perfetta, di armonia delle varie componenti, che si fondono in un insieme che appare dominato dall’ordine e il cui puzzle ha tutti i pezzi al proprio posto.

Se penso all’immagine che mi è venuta alla mente ascoltando questo brano, mi viene da citare il celebre eroe Zorro, difensore dei più deboli e avversario degli sfruttatori: la tonalità dello spartito chitarristico potrebbe essere facilmente collocata all’interno della colonna sonora di un episodio della serie dedicata al famoso personaggio, con lui che si staglia all’orizzonte, con il suo cavallo nero che si impenna verso il cielo, nitrendo ferocemente e con rabbia, in un gesto di sfida verso gli avversari del proprio padrone.

In questo brano si può a mio parere sentire una musica tipicamente “da saga”, molto evocativa, capace di risvegliare nelle menti e nei cuori degli ascoltatori un senso di rivalsa e un’accresciuta autostima, permettendogli di identificarsi per almeno quattro minuti nel proprio eroe preferito, e sentendosi sulla cima del mondo, in grado di dominarlo e assoggettarlo ai propri desideri.

Se il primo brano dava l’impressione di essere selvaggio, disinibito, questa seconda canzone, come detto, fornisce una sensazione di maggiore compostezza, regolarità, che la fa diventare una maestosa espressione di capacità chitarristica, perfettamente orchestrata, in un ordine immediatamente percepibile e costantemente presente durante tutto lo sviluppo della melodia.

Questo brano fa secondo me della ripetizione di uno schema fisso la propria cifra stilistica, con un concetto, un messaggio centrale che viene ripetuto più volte, per renderlo presente e acquisito nei cuori degli ascoltatori.

Il terzo brano, “Tabernas”, mi pare quello che esprime la maggior carica di sensualità, di erotismo, offrendo all’ascoltatore delle sonorità che sono in grado di risvegliare i suoi istinti primordiali, animaleschi, facendolo tornare per un momento ad una condizione “primitiva”, molto istintuale e immediata.

In questo caso, la tessitura sonora delle chitarre, aggressiva e in grado in alcuni punti di creare un sommovimento, un turbamento nel cuore di chi ascolta, viene accompagnata da furiose sviolinate, in perfetto stile gitano, e da un battito di mani che si istalla perfettamente all’interno del filo rosso della canzone, perché consente di tenere ancora più facilmente il ritmo e invita a fare lo stesso, magari accostando al battito alcune urla ferine di approvazione, in grado di manifestare il piacere mistico e metafisico fornito dalla canzone, che fa immergere nelle più recodite profondità dell’animo umano, facendo emergere come detto degli istinti primitivi, animaleschi, che magari non si pensava nemmeno di avere.

Molto interessante risulta a questo proposito l’inserimento, verso la fine del brano, di una parte di percussioni a sé stante, che crea un momento di pausa, di allentamento della tensione, di pathos, prima che le schitarrate furiose riprendano il loro corso.

Quello che mi ha colpito maggiormente di questo brano è la presenza di accordi molto potenti e impattanti, che si vanno ad alternare alle parti arpeggiate, creando una sensazione di profonda liberazione, di grande e feroce sfogo delle proprie pulsioni, di ciò che più ci avvicina agli animali, e che ci permette di abbandonare per un attimo la nostra razionalità, liberando una profonda emotività e forza interiore.

Il titolo mi ha fatto pensare alla traduzione spagnola della parola “Taverne”, i luoghi in cui, spesso da ubriachi, si da realmente sfogo a tutte le proprie pulsioni non razionali, diventando un gruppo di amiconi che ha solo voglia di divertirsi e di celebrare la gioia di vivere che accompagna quel particolare momento della propria vita.

La canzone successiva, “Metamorfosi”, sembra riportare per un attimo tutti sulla terra, diffondendo un senso di lieve e intensa malinconia: il tono generale del brano è infatti molto intenso, nel senso che è in grado di ristabilire un profondo sentimento di realtà, di concretezza, di attaccamento alla terra su cui ci si trova a vivere.

A livello strumentale, predomina la chitarra, con un arpeggio dai tratti profondi e insistiti, che fa da perenne sottofondo alla sviluppo della melodia solista, improntata come detto ad un senso di perdita, di mancanza, di malinconia: sembra di essere all’interno di una piena fase di trasformazione, come indica il titolo, di passaggio da uno stato ad un altro, e quindi questo provoca una certa tristezza per quello che si sta lasciando, per arrivare ad essere qualcosa di completamente nuovo e rinnovato.

Quello che prevale a mio parere è un senso di trasporto, di profondo e intenso sentimento, di grande e potente emotività, quasi che l’ascoltatore venga trasportato all’interno di un abisso senza fondo, fatto di oscurità e buio, dal quale non potrà uscire che rinnovato e trasformato, se la metamorfosi sarà vera, reale ed efficace.

Caratteristica di questo brano è la presenza, in funzione di accompagnamento ritmico, del suono di quello che sembra essere un piccolo bastoncino, il cui effetto non fa che aumentare quel senso di ottundimento dei sentimenti, di compressione dell’emotività, che viene sviluppato nello svolgimento dell’intero brano. Da una parte sembra esserci un sentimento di tristezza che vuole emergere prepotentemente, ma dall’altra questo stesso sentimento si trova ad essere in qualche modo ingabbiato, ostacolato, non riuscendo a risaltare in tutta la sua completezza, ma restando in qualche modo sospeso nell’aria, a disposizione di chi ha le facoltà emotive e intellettive per intercettarlo.

Questa canzone è a mio parere una sorta di rito di passaggio, di presenza transitoria e mutevole, destinata a trasformarsi continuamente, fino a che non ha raggiunto la propria forma definitiva.

E’ incredibile come, con lo stesso strumento, ma con un’interpretazione diversa dello stesso, si riesca a mettere in campo una gamma vastissima di emozioni diverse fra loro, di disegnare degli affreschi dai colori profondamente contrastanti, il tutto all’interno della stessa opera di ingegno musicale: la musica è una cosa meravigliosa proprio perché é in grado di esprimere tutto, ovviamente se si hanno le capacità di farlo: tante volte, comunque, come detto all’inizio, lasciarsi trasportare dalle emozioni è la cosa migliore da fare.

Il disco di conclude con “Muladhara”, secondo me una delle canzoni più perfette da dedicare ad una donna, perché trasuda femminilità, attrattiva, sensualità da tutte le proprie note.

Si ritorna qui sui ritmi flamenchi e gitani dell’inizio, con una potenza ed un’aggressività sonora molto evidenti, con dei chitarristi in splendida forma, che danno sfoggio dell’intera gamma delle proprie abilità: può anche essere che l’unico chitarrista sia il nostro Alberto, il quale non ha fatto altro che sovraincidere diverse linee melodiche, una sull’altra, sovrapponenedole.

Il titolo sembra anch’esso dare l’impressione che il carattere del brano sia prettamente femminile, perché la parola mi sembra appunto una sorta di soprannome dato ad una donna, che nasconde in sé dei significati in grado di turbare e lasciare incapaci di reagire, delle manifestazioni dell’essere femmina che l’uomo non può arrivare a conoscere fino in fondo, ma che può solo sfiorare, cercando di afferrarle con il suono della propria chitarra.

L’articolazione della canzone è molto varia: sembra di essere in presenza di un tipico “tema e variazioni”, riprendendo per un attimo il linguaggio della chitarra classica: c’è infatti un argomento centrale, che viene sviluppato e dipanato in modi diversi nel corso della medesima canzone, con parti di chitarra dalla grande varietà e dalla costante mutevolezza, in grado di non dare punti di riferimento a chi ascolta, ma stimolando al contempo la sua capacità di comprendere e capire le diverse emozioni che la vista di una bella donna è in grado di provocare nell’animo e nella mente di un uomo, che sia profondamente sensibile o un pezzo di ghiaccio. Alla fine, il punteruolo della femminilità riuscirà sempre a crearsi un varco, anche nella corazza più resistente.

Siamo quindi in presenza di una canzone e non di un brano: tutto va necessariamente declinato in genere femminile, come fa l’autore a partire dal titolo.

Alla fine, ci resta un ottimo disco strumentale, ben suonato, ben prodotto e ben articolato in tutte le sue componenti: il suo ascolto mi ha lasciato piuttosto rapito, e sono rimasto profondamente colpito dalla gamma di emozioni che Alberto è riuscito a descrivere e disegnare, come dalla sua grande abilità nel suonare la chitarra, da maestro del flamenco e delle note gitane.

Credo proprio che, se ci sarà la possibilità, acquisterò il disco, perché mi sembra veramente degno di far pare della collezione di un intenditore di musica che si dichiari tale. Si tratta di un album per intenditori, per palati fini, che per essere compreso ha bisogno di una profonda concentrazione e di una forte capacità di immergersi nei significati che pian piano emergono dall’ascolto e che si rendono palesi e manifesti se si ha l’attitudine giusta per comprenderli, l’atteggiamento e l’attenzione giuste per afferrarli, prima che scappino e volino via per sempre.

Io devo ammettere che sono un po’ di parte, perché la chitarra è il mio strumento preferito, dato che ho frequentato un corso di chitarra classica, appunto, per più di dieci anni.

Tutte le canzoni mi hanno colpito molto fin dal primo ascolto, e mi sono inconsapevolmente trovato con gli occhi chiusi, talmente forte e imperioso è stato l’impatto che la musica di Alberto ha esercitato sulla mia sensibilità e sulla mia psiche.

Consiglio quindi a tutti di ascoltare in modo approfondito l’album, senza limitarsi ad un primo ascolto superficiale: il potere della musica, e in particolare di quella ben suonata è talmente forte che il messaggio che vuole comunicare prima o poi arriva a tutti, ovviamente se ci si predispone positivamente verso di essa.

Sono quindi curioso di ascoltare altre canzoni del nostro autore, per vedere se manterrà questa impostazione, che ai miei occhi è meravigliosamente splendente e intensamente pura.

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