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Anche questo mese è tornato Massimo Comi a parlarci del secondo inedito di Al Vox, la sua”Autodipendenza”, deliziandoci con le sue riflessione e raccontando il brano, argomentando ogni punto. Ascoltato la canzone nelle nostre playlist e seguite l’artista.

Una canzone complessa, articolata, che si dipana su più piani, sia a livello sonoro che a livello vocale.
Le sonorità elettroniche, con una componente di eco molto evidente, che aprono il brano mi hanno fatto pensare ad alcune canzoni dei primi 883, ma anche a composizioni più legate alla dance, per esempio quella che offre Gigi d’Agostino ai propri fan, con un beat di sottofondo piuttosto caratteristico. Questi suoni rimbalzano all’interno del cervello, creando un certo scompiglio, che viene sostituito da una sensazione di maggiore sicurezza e serenità, una volta che vengono assimilati e compresi nella loro essenza, per così dire, “danzereccia”. Mi sono venute in mente anche le canzoni dei giovani Subsonica, che sono stati uno dei pochi gruppi italiani a mescolare sonorità tipicamente rock a un sound più elettronico e, appunto, dance: pensiamo per un attimo a brani come “Disco Labirinto” e “Nuova Ossessione”.

All’interno di un tessuto sonoro apparentemente così semplice, ma in realtà molto evocativo e pieno di riferimenti, si inserisce la voce di Al Vox, che in questo caso si rivela essere piuttosto penetrante, dai toni bassi, affermativi, che quasi non ammettono replica, perché parlano di una situazione che tutti hanno davanti agli occhi, ma che magari fanno finta di non vedere, girandosi dall’altra parte. Sembra quasi di assistere ad un racconto di una favola, talmente è rassicurante e apparentemente conciliante il tono con cui il nostro cantautore comunica il proprio messaggio, senza quasi cantare, ma parlando e discorrendo con l’ascoltatore, quasi si trattasse di un brano rap, con cadenze comunque più lente e, in certi punti, cantilenatanti, come se si trattasse di un maestro che spiega la sua lezione ai propri alunni. Tutto ciò mi ha fatto pensare, perché, quando sento una canzone, rifletto subito su tutto ciò che di simile mi evoca nella testa, al famosissimo pezzo di Frankie Hi-NRG, “Quelli che Benpensano”, il quale, attraverso un tono dalla cadenza appunto cantilenante e narrativa, lanciava una feroce critica ad un certo tipo di persone. A questo proposito, viste le parole del testo, che andrò ad analizzare fra poco, il riferimento ad un tunnel in cui le persone sembrano ingabbiate, intrappolate, mi ha portato alla mente la canzone di Caparezza “Fuori dal Tunnel”, in cui l’artista assumeva un tono quasi da annunciatore di uno spettacolo circense, provocatorio e sibillino.

Veniamo quindi al testo, che afferma che, quando le persone crescono e diventano adulte, manifestano dei bisogni, cercando di ottenere la soddisfazione degli stessi: bisogni che non sono né primari, né strettamente necessari, dato che queste stesse persone hanno già percorso un buon tratto della propria esistenza, o almeno credono di averlo fatto. Solitamente, accanto ai bisogni strettamente esistenziali, l’uomo, una volta raggiunta un’età più adulta, manifesta l’esigenza di evadere, di liberarsi da un’esistenza che lui si è creato con le sue stesse mani e che adesso gli va un po’ stretta: gli manca un po’ il fiato, la famiglia, che sia costituita dalla madre e dal padre se si parla di un ragazzo, o dalla moglie e dai figli, se si tratta di un uomo, comincia ad andargli un po’ stretta, tanto che a questa situazione che appare imprigionarlo lui quasi preferirebbe gettarsi da un burrone.

A questo punto, Al Vox ritiene di dover intervenire in prima persona, spiegando la sua versione dei fatti: secondo lui la gente, dopo aver sperimentato per le prime volte i divertimenti che dovrebbero spegnere il proprio bisogno di evasione, ripiomba in uno stato di noia, di assopimento, di apatia, perché questi stessi divertimenti non hanno sopito del tutto i lamenti legati all’esistenza, non cancellando del tutto il senso di noia che le persone provano. Più che di evasione, dunque, si può parlare di illusione: l’autore, in qualche modo, cerca di mettersi nei panni delle persone di cui parla, dicendo che, per gentile concessione, anche lui arriva ad ammettere l’evasione come bisogno dell’uomo, quasi che comprenda i motivi alla base di questo senso di disagio, ma non arrivi comunque a giustificare il modo in cui si tenta di sopirlo, perché in realtà si tratta di qualcosa di vuoto, di apparentemente appagante, ma che non dà una soddisfazione definitiva.

Dal discorso quasi completamente parlato si passa poi al cantato vero e proprio, che coincide con quello che appare essere il ritornello: Al Vox dà finalmente una definizione a tutto ciò che ha cercato di illustrare precedentemente, usando solamente due parole, cioè “Autodipendenza Tossica”. L’interpretazione che io mi sono fatto nella mia testa è che si vuole dire che la gente è troppo presa dai propri bisogni, dalla propria insoddisfacente condizione di vita, arrivando a dipendere disperatamente dalle sensazioni che prova e dalla voglia di evasione, che attraverso i cosiddetti divertimenti, non riesce a spegnere del tutto. Questa incapacità di slegarsi dai bisogni che non sono primari e necessari alla fine diventa addirittura tossica: piuttosto che far risaltare un disagio e aiutare a trovare la chiave per annullarlo, rende la vita ancora più soffocante, creando un’atmosfera ancora più irrespirabile. Le persone di trovano quindi intrappolate in un tunnel da cui non riescono ad uscire: ecco quindi il riferimento a Caparezza.

L’autore in realtà non ha uno sguardo pienamente distaccato dalla situazione che osserva, perché ammette di esserci dentro anche lui, di non trovarsi realmente in disparte come si potrebbe intendere dalle sue parole: se questa strada senza uscita che intrappola le persone si rivelasse nella sua essenza come qualcosa che riesce a togliere lo sconforto, l’amarezza, anche lui si sentirebbe meglio e non sarebbe così passivo, riuscirebbe a far seguire dei fatti concreti all’osservazione di una tendenza che attanaglia la maggior parte degli esseri umani che conosce. In questa particolare parte della canzone, si può notare un ispessimento della voce, che arriva a sottolineare con forza la parola “passivo”, trascinandola in un urlo quasi di disperazione, di invocazione, prolungandone la durata ed estendendone la lunghezza all’interno dei versi, con la “o” finale che sembra non terminare mai, quasi che questa passività sia la chiave di tutto, qualcosa che impedisce di intervenire su quanto si va a constatare e osservare.

Si ritorna poi al tono quasi scolastico delle strofe: Al Vox cerca in tutti i modi di giustificare questo senso di apatia e la conseguente voglia di evadere, dicendo che esse possono essere frutto di problemi diversificati, molteplici, mai risolti del tutto, o, ancora peggio, lasciati da parte senza affrontarli. Alla base, ci può essere anche un senso di noia, che porta a volersi quasi forzatamente divertire, rendendo appunto divertente anche l’ozio, il non far niente.

Come conseguenza di tutto ciò, si arriva a porsi un problema che in realtà è inesistente, essendo frutto solamente della propria immaginazione, sollecitata dalla particolare situazione: una soluzione, anch’essa apparente, sembra essere il consumo di erba leggera, che non basta. L’insieme di tutti questi fattori scatenanti, uniti all’impossibilità di trovare un modo per uscire da questa situazione di immobilità, porta a percepire la voglia di evadere come un’ossessione, che brucia e arde continuamente nell’anima: se si arriva a questo punto, probabilmente si è guanti al capolinea, e Al Vox lo ribadisce, dicendo che è troppo tardi.

Si giunge poi alla ripetizione del ritornello, all’Autodipendenza Tossica, che riesce a soggiogare tutti, autore compreso, intrappolandoli in un tunnel, che non può far star bene, ma che invece paralizza, rende inermi e passivi.

Dopo questa ripetizione, invece che tornare ad una strofa discorsiva e cantilenante, si ha un decisa virata verso il rock, con un suono di chitarra che appare all’improvviso e dà carattere al pezzo, accompagnato da una voce che si fa graffiante e urlata: il nostro cantautore vuole fare una confessione, sostenuto dalla forza di queste note così aggressive; dice di attraversare un momento in cui, se non avesse come valvola di sfogo lo scrivere canzoni e poesie, diventerebbe sicuramente un isterico, e finirebbe in una situazione non bella, una delle tante mutazioni che assume la pazzia, una condizione che nessuno vorrebbe raggiungere.

La grinta e lo struggimento caratterizzano anche la strofa conclusiva, che quasi segna un momento di estrema arrendevolezza, perché l’autore afferma che, a questo punto, chi desidera essere felice deve portare a compimento questa sua condizione, citando una sorta di proverbio, di modo di dire (“chi vuol esser lieto sia”), e ponendo l’accento sul verbo “essere”, che viene ripetuto più volte. A questo punto, l’unica soluzione appare quella di lasciare che chi desidera essere felice lo possa essere, perché non si hanno certezze su quello che potrà riservare il domani.

La canzone si conclude con la ripetizione ossessiva dalla definizione che Al Vox ha attribuito alla condizione che ha descritto e in cui si sente coinvolto: “Autodipendenza Tossica” diventa come un mantra, che viene ribadito molte volte, anche attraverso il contrasto e la sovrapposizione di due toni di voce completamente diversi, uno più acuto e aggressivo e uno più riflessivo, pacato, distaccato, affermativo.

Alla fine, ci rimane un brano dal genere praticamente inclassificabile, perché, come ho spiegato all’inizio, è pieno di caratterizzazioni e influenze diverse, è stratificato sia musicalmente che vocalmente. E’ quindi impossibile incasellarlo con sicurezza, perché in esso ci sono elementi di generi musicali diversi, che, mixati insieme, danno una vivida rappresentazione del messaggio di cui la canzone vuole farsi portatrice: è impossibile non restare colpiti, scombussolati, provocati nell’intimo da questo brano, perché esso genera una quantità tale di sensazioni e percezioni che fanno in modo che non possa essere ascoltato distrattamente, ma che invece si ponga la massima attenzione su di esso.

Voglio concludere con un’altra intuizione che la mia mente ha avuto sulle similitudini che ha il modo di cantare di Al Vox con quello di alcuni artisti che conosco: la parte delle strofe, quella cantata e parlata con un tono assertivo, scolastico, quasi cantilenante, mi ha portato alla mente il modo di esprimersi di Donatella Rettore, perché anche lei, in alcune sue canzoni, aveva questo modo quasi irridente di cantare.

Mi è sembrata infine una buona soluzione, tale da dare ancora più vigore e rilevanza al brano, il fatto di ripetere e ribadire alcuni versi della canzone, attraverso dei piccoli coretti che fanno da accompagnamento al cantato originale, cosa che va ad arricchire ulteriormente la sostanza della canzone, rendendola comprensibile anche alle orecchie che vogliono essere più sorde.

Al Vox mi sembra un cantautore molto originale, creativo, che non si limita a fare le cose secondo dei canoni prestabiliti, ma che cerca invece di andare oltre, cercando soluzioni sempre diverse e dando al contempo un’interpretazione personale e critica degli avvenimenti che accadono intorno a lui. Ritengo queste capacità lodevoli e meritevoli di menzione, perché non sono parte del bagaglio di tutti gli artisti.        

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PaKo Music Records

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