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Rieccoci con l’appuntamento del giovedì con le recensioni di Massimo Comi, la sua penna descrive ancora una volta un brano di Al Vox, “Requiem for the world”, uno scritto imperdibile. Vi consigliamo sempre di sostenere la musica, seguendo l’artista e ascoltando i brani proposti. Trovate l’artista su tutti i Digital Store.

In questa canzone, sublime esempio di contaminazione musicale, Al Vox riesce ad esprimere tutta la propria sconfinata creatività e tutta la propria passione per la commistione di generi diversi, anche se in questo caso prevale l’indie rock, con una presenza quasi costante di chitarra e batteria.

Già dal titolo, si può capire che non si tratterà di una canzonetta leggera da quattro soldi, fatta giusto per divertire un piccolo pubblico di aficionados, ma una presa di coscienza della realtà dei fatti, che porta il nostro cantautore a recitare una sorta di preghiera funebre per il mondo attuale così com’è.

Non manca certamente il gusto per la teatralità, per la satira, per la presa in giro, ma il tutto è a contorno di una lucida analisi della nostra situazione, fatta nel modo che Al Vox preferisce, con il potere delle parole, il cui significante e il cui significato aulico travalicano il potere dei consueti cinque sensi dell’uomo, per andare a toccare delle corde inaspettate, inattese, ma comunque rivelatrici di un’ immensa potenza immaginativa e sognatrice.

L’apertura della canzone è molto curiosa, con il nostro cantautore che sembra cantare un motivetto leggero, dicendo in realtà che non ha paura di morire: segue a questa canzonetta dai contenuti comunque psicologicamente forti il rumore di uno sparo, a cui segue ulteriormente una risata sardonica e malefica, che sembra quasi appartenere ad uno spirito maligno e malvagio.

Questa risata maledetta fa da sottofondo ad un’intro di batteria, molto interessante dal punto di vista melodico, perché appare in qualche modo filtrata attraverso uno strumento elettronico, dato che il suo suono sembra molto grezzo, acido, corrosivo: il tutto per introdurre il cantato, che come di consueto è sibilante, insinuante, mellifluo, onirico, e accusa una non meglio specificata persona di essere leggermente egoista, con un interessante contrasto fra due termini, perché sembra una cosa alquanto strana che una persona sia solo leggermente egoista, dato che i veri egoisti lo sono in maniera piena e completa.

Appare in questa sezione della canzone la chitarra elettrica, con un sound piuttosto pesante, quasi Hard Rock, Heavy Metal, che fa pensare a gruppi recenti quali gli Slipknot e i Rammstein: viene spiegato il perché la determinata persona viene definita come leggermente egoista, dato che si dice che lei pensa solo ai like sui social e ritiene che tutto il mondo giri intorno a quelli, in una velata critica alla società odierna, che vive quasi di più nella realtà virtuale e per la quale un mi piace sui social network vale di più che un apprezzamento ricevuto di persona.

Comportandosi in questo modo, le conseguenze non potranno essere che nefaste, dato che questa stessa persona si troverà secondo Al Vox ad imprecare perché avrà perso tutto quello che possedeva, ritrovandosi solo e povero.

Abbiamo poi un breve stacco di batteria, con un sound sempre piuttosto grezzo e tagliente, che sembra essere un’introduzione ad una parte successiva del brano, e infatti il nostro cantautore si lancia in un altro discorso, continuando la sua prosa teatrale che tanto lo rende unico.

Invece che curare la propria immagine, è meglio curare la propria anima, in modo che le persone ci ameranno per quello che siamo, e non per quello che sembriamo: la voce del nostro cantautore assume i toni del rimprovero, con un incedere a tratti piuttosto inquietante, che sembra appartenere ad una mente onniscente, che conosce e sa tutto, e che quindi può dispensare consigli sotto forma di duri rimproveri.

Saremo amati anche per quello che mostriamo in questo modo, e non saremo nemmeno lontanamente dei mostri, anche pensando meno all’immagine e più alla sostanza: interessante l’accostamento tra il verbo “mostrare” e il sostantivo “mostro”, in un figura retorica tipicamente poetica, che accosta due termini quasi simili, per rafforzare il senso di quello che si intende affermare.

Quella spiegata qui sopra è per Al Vox l’unica via che ci consente di sopravvivere in un’era digitale comandata dai computer: abbiamo qui una visione quasi apocalittica, che fa pensare a film quali “Blade Runner” o a libri quali “1984” di George Orwell.

Queste macchine ci comandano, ci rendono schiavi, anche se in realtà schiavi lo siamo già, ciascuno da quella che crede possa essere la propria via d’uscita, un’uscita d’emergenza, che no risolve in modo definitivo la situazione: in questa parte, l’accompagnamento melodico si fa meno sostenuto, ma più ritmato, creando una sensazione di suspence e di sospensione, che porta istintivamente a riflettere e a pensare alla propria situazione personale, per vedere se è veramente simile a quella che il nostro cantautore descrive.

La visione apocalittica continua a prevalere nel testo del brano, perché l’autore arriva ad affermare che un disastro non è solamente nell’aria, e questa affermazione viene accompagnata da lampi di sonorità artificiali, che appaiono provenire da strumenti ad arco o da sintetizzatori e rendono l’atmosfera ancora più elettrica e inquietante.

Ci sono infatti le bombe che cominciano ad affogare tra le persone che cercano fiori, e qui sembra esserci un chiaro riferimento alla recente guerra fra Russia e Ucraina: il tutto avviene in mezzo a terre cosparse di sale, ma con il sale che è anche in testa e dovrebbe essere garanzia di intelligenza secondo il detto popolare; Al Vox si domanda se questi grani di intelligenza sono sufficienti per queste persone, e oltre al sale c’è anche una speranza, la speranza che ci sia una sola sostanza, secondo me perché il nostro cantautore vuole denunciare il rischio che nelle bombe prima citate ci siano anche sostanze nucleari, e quello sarebbe un terribile rischio per il mondo.

Viene introdotto poi un altro assolo di batteria, molto brusco e perentorio, che sembra anche in questo caso servire da stacco fra una parte di brano e quella successiva, con una giusta dose di sospensione e di indeterminatezza, in attesa di altre sparate violente contro la società di oggi.

Parte quindi una sorta di ritornello, con una base di chitarra elettrica ancora molto acida e grezza, che recita il personale requiem di Al Vox, una preghiera funebre per il mondo, per tutte le persone, per tutti noi: un requiem che sia sufficiente, che sia abbastanza per coprire tutto e tutti.

La preghiera funebre viene ripetuta due volte, con una base di batteria che, oltre ad essere tagliente e appuntita, si arricchisce di sonorità più varie ed elettroniche, con dei punti in cui sembra di sentire il suono di una pallina da ping pong che viene colpita da una racchetta, con un effetto piuttosto interessante.

Successivamente, dopo un ulteriore, breve stacco di batteria, la linea melodica della chitarra si ispessisce e si irrobustisce, ritornando ad essere pesante e potente come all’inizio: la voce diventa sempre più lamentosa, struggente e disperata, quasi in un calando verso gli inferi, quasi come se non ci fossero reali vie di uscita dalla fine del mondo che il nostro cantautore si permette di predire.

Il requiem prosegue fino alla fine della canzone, e Al Vox sembra recitarlo con uno slang inglese sempre più pronunciato, con una chitarra di sottofondo che sembra creare un’atmosfera cupa, disperata e struggente simile a quella che si può trovare in alcune canzoni degli Smashing Pumpkins, con la batteria che fa la sua parte ad accompagnare ritmicamente questa discesa verso l’Inferno.

Nella parte finale della canzone, comunque, la voce del nostro autore sembra riprendersi un po’, assumendo, grazie ad uno slang più accentuato come detto precedentemente, un’aria di leggera e superficiale nobiltà, come se egli dicesse che, si vuole concludere tutto, è meglio farlo in gloria, nel miglior modo possibile, con la giusta pronuncia e con la giusta vocalità.

Il requiem che viene cantato in loop è riferito sempre alle stesse entità, in un gioco circolare piuttosto interessante, che mette in relazione fra loro tutte le entità a cui viene dedicato il canto funebre: si parla del mondo, di tutti, di tutti noi, aggiungendo l’avverbio “abbastanza” in inglese quasi per affermare l’idea che questa atmosfera di lutto, di morte e di fine annunciata deve bastare per tutti, deve essere sufficiente per coprire il mondo intero.

E’ curioso il fatto che le liriche siano in italiano e che il ritornello sia in inglese: questo per affermare che, se il discorso fatto nelle strofe può essere dedicato solamente alla realtà italiana, il discorso compiuto nel ritornello deve essere per forza di cosa qualcosa di internazionale, visto che coinvolge tutto il mondo e tutte le persone che vi abitano.

Al Vox dimostra quindi una volta di più la sua intelligenza e la sua affinata capacità di intuire come devono essere espresse le idee e le opinioni, in modo che vengano ascoltate e che ricevano la giusta attenzione.

Il tutto viene sempre alimentato da un gusto per il grottesco, per la teatralità, per la satira e per la commedia: ogni cosa viene filtrata attraverso queste componenti, per rendere ogni brano un pezzo unico, qualcosa che si distingue volontariamente da tutto il resto, per la sua capacità di affrontare tematiche reali attraverso l’arte.

Sappiamo ormai bene che, oltre alla musica, il nostro cantautore ama il teatro e il cinema: egli traspone queste sue passioni all’interno delle proprie canzoni, facendole diventare quasi dei pezzi di teatro, da poter recitare su di un palcoscenico davanti ad una platea.

Non mi stancherò mai di definire Al Vox come uno dei più interessanti e promettenti poeti moderni, che si dedica anima e corpo ad un’arte in cui sempre meno “artisti” si vogliono cimentare, preferendo il solo mezzo della musica, pur efficace, per trasmettere il loro messaggio.

In questa canzone che ho recensito, per esempio, sembrano essere presenti tre o quattro differenti canzoni, ciascuna interpretata secondo una metrica teatrale diversa, con una capacità vocale straordinaria, in grado di far sembrare normale ciò che invece normale non lo è per niente, perché è necessario uno studio approfondito della dizione per poter recitare le canzoni come fa il nostro autore.

Mi piace sempre di più la sua voce sinuosa, penetrante, capace di infilarsi nei meandri più nascosti della coscienza umana, insinuandosi in ogni pertugio da noi lasciato aperto, per aprire e fare esplodere la nostra mente, attraverso una critica feroce ai costumi della società odierna, che vanno cambiati in fretta, prima che la nostra esistenza su questa Terra si trasformi in un requiem sempre più disperato.

Non mi stanco mai di recensire i brani di Al Vox, perché è uno dei pochi cantautori che riescono sempre a stupirmi, a darmi qualcosa in più rispetto alla volta precedente, ad aggiungere un tassello ulteriore a quanto fatto fino a quel momento: penso che questa sia una delle prerogative dei geni, e il nostro autore assomiglia sempre di più ad un genio.

Non posso quindi che fargli i miei più sinceri complimenti, invitandolo a proseguire su questa strada, aggiungendo di volta in volta qualche mattone in più, per raggiungere un giorno l’Olimpo dei cantautori, con la sua voce che a tratti assomiglia a quella del primo Francesco Renga, e a tratti è simile a quella del Maestro Franco Battiato.

Viva l’eclettismo, dunque, viva la capacità di affermare l’arte nella sua concezione olistica, mescolando musica, teatro, melodramma e cinematografia: viva Al Vox, in sintesi, un cantautore che incarna tutto ciò che noi vorremmo essere ma che a volte non riusciamo ad essere.

Lui è la dimostrazione vivente che con lo studio, l’applicazione e la volontà si possono raggiungere dei grandi traguardi, svariando da un genere all’altro e utilizzando una gamma infinita di sonorità e strumenti.

Gli dico grazie, mentre aspetto con impazienza la sua prossima canzone da recensire. Viva.

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