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Giugno è stato un mese particolare, pieno di alti e bassi ma siamo, anzi sono, felice di poter condividere con voi questa intervista. Oggi scambiamo due chiacchiere con Elisa Serrani, giornalista con la passione per la musica, per questo ha trasformato questo ardore in lavoro ma oltre a questo, è anche una mia amica a cui, ormai, tengo molto.
Una Donna con una forza immensa, nonostante le bastonate che la vita di sbatte in faccia.

Ciao Elisa, che strano farti questa intervista, ma oggi siamo qui non solo per parlare di musica, ma per entrare un po’ più nel personale. Dobbiamo raccontare una storia e lanciare un messaggio.
Presentati per tutti coloro non ti conoscono, racconta brevemente chi sei e di cosa ti occupi.
Ciao Patry. fa stranissimo anche a me; ironicamente ti direi “Non avevi nessuno di più interessante da intervistare?!”, ma, seriamente, sai quanta stima ho di te e per me è un vero onore, oltre che un immenso piacere. Mi chiamo Elisa, ho 32 anni e sono una di quelle persone, fortunatamente tante, che vive con la musica nelle vene al posto del sangue. Lavoro nel settore artistico/musicale da 18 anni (mamma se sono vecchia, non pensiamoci), prevalentemente come Responsabile Stampa e Comunicazione (anche se, nel corso degli anni, ho ricoperto un po’ ogni ruolo, dal booking al management) e, nel 2020, sono ho fondato l’Ufficio Stampa Music & Media Press, continuando comunque a portare avanti altre collaborazioni con colleghi e addetti ai lavori.

Sul tuo profilo personale hai raccontato, con tanto coraggio, la tua malattia. Hai sofferto di anoressia. Ti va di raccontarci qualcosa in più? Quando hai iniziato e come ne sei uscita, soprattutto.
Certamente! Prima di tutto, credo sia un dovere, personale e morale, portare la propria esperienza per cercare di dare sostegno anche ad un singolo individuo che, nel corso del suo cammino, si ritrova in un momento che non definirei di debolezza, ma di stasi o di totale assenza di connessione da se stesso, esponendo, comunicando, senza giudizi o deplorazioni, ma come un racconto che possa raggiungere e alleggerire il fardello dall’anima di chi lo ascolta o lo legge. In secondo luogo, tutt’oggi, fatico a definire l’Anoressia una malattia al pari di altre; l’Anoressia, per come l’ho vissuta io (parlo sempre solo ed esclusivamente per me stessa), è uno stato mentale. È un tarlo, una dipendenza, una condizione di controllo che fa sentire potenti su ciò che da sempre ci sfugge, noi stessi. L’Anoressia parte da dentro, dal centro nevralgico del nostro spirito; è quella vocina assordante che, come un martello, continua a ripeterci che siamo sbagliati, che non valiamo nulla e che, nulla, meritiamo. Nel mio caso specifico, sono arrivata a pesare 32,5 kg x 173 cm di altezza all’età di 20 anni, con un BMI (Indice di Massa Corporea) di 11 (il giusto range è dai 19 ai 24). Un ammasso di ossa, insomma, eppure, mi sentivo pesante, pesante per il mondo, pesante per le persone che amo, pesante per me stessa. L’Anoressia è un contrappasso tra il carico interiore e la lancetta della bilancia; un’antitesi delirante tra il nostro occhio interno, e gli sguardi esterni, tra gli oneri che ci sentiamo addosso e di cui ci carichiamo (che, molto spesso, non ci competono) e la leggerezza di una piuma, a cui vorremmo assomigliare, per volare via e non sentire, provare, più niente.

Come vivevi o come vivi le critiche che ti fanno e certi sguardi?
Quando ci sei dentro, niente pesa di più del tuo giudizio. Le critiche scivolano via, come i consigli, i “fatti aiutare” delle persone care. Non smetti di provare emozioni, ma le metti in stand-by. Vivi in una realtà distopica e distorta, in cui l’unica prerogativa è, fondamentalmente, sparire. Poi, come sempre, c’è caso e caso: molte ragazze (o ragazzi, perché, ricordiamoci, anche gli uomini ne possono soffrire e purtroppo, negli ultimi anni, sempre in maggior numero) iniziano a soffrire di questo DCA per dimagrire, per raggiungere i modelli di (pseudo) perfezione (non esiste, ricordatelo sempre! E aggiungerei “grazie al cielo!”) blasonati dai Media, altri, per le critiche su qualche kg di troppo (di troppo per chi? Di troppo da cosa?), altri ancora, per piacersi o piacere di più. Ognuno di noi è diverso (la bellezza dell’universo, la peculiarità del singolo che avvalora la collettività); io ho iniziato a perdere peso non per dimagrire (sono sempre stata molto slanciata e fin dalle elementari ero il bersaglio di idiozie tipo “stecchino” e cose del genere), ma per sparire. Volevo annullarmi anche dall’esterno, perché, da dì dentro, l’avevo già fatto.

Tu sei una giornalista, hai un ufficio stampa e un magazine. Com’è iniziata questa passione per la musica, come mai hai scelto di stare dietro le quinte?
La mia passione per la musica, a detta di mia madre, è nata con me. Ho iniziato a ballare nel ventre materno, quando i miei andavano in balera. Da bambina, quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande, rispondevo “La dottoressa della mente (tradotto: psicologa) e la dottoressa della musica (tradotto: ehm, no, questa non ha traduzioni!)”. A 14 anni, al Liceo, ho iniziato a scrivere per un magazine scolastico, inserendo lo spazio “Musica” e, che dire, da lì non mi sono più fermata. La Musica, l’Arte, sono lo spazio che ci connette all’infinito, a quell’Oltre che non possiamo definire né immaginare e, soprattutto, sono il punto di connessione universale. Non serve sapere la lingua, la cultura o la religione dell’altro sotto ad un palco o in una libreria, in un negozio di dischi, ad una mostra in una galleria d’Arte; lo si sente, come altro uguale e diverso da sé, lo si percepisce. Basta uno sguardo e scatta una connessione che supera ogni barriera. Ho scelto di stare dietro le quinte perché il palco lo lascio volentieri ha chi ha il carisma e l’abilità innata di coinvolgere gli altri con ciò che comunica. Mi hanno sempre definita un “animale da backstage” (la prima volta a 15 anni, un noto e illustre giornalista che ringrazierò sempre per i suoi preziosi consigli e insegnamenti) e credo che non ci sia epiteto migliore per descrivermi. Amo il dietro le quinte perché è come scavare oltre l’apparenza, è il cuore, il nucleo pulsante del grande spettacolo che è la vita

Com’è il tuo rapporto con gli artisti?
Diretto, autentico, umano. Il mio rapporto con gli artisti è il rapporto con le persone che hanno scelto di seguire la loro vocazione, la loro inclinazione all’Arte. Sin dall’inizio, ho compreso che persona e personaggio devono collimare per fare carriera. Gli artisti non sono un numero, la copertina patinata di un magazine in edicola o il poster in cameretta, né una macchina da soldi; gli artisti sono persone, come me, come te, come i tuoi lettori. Sono persone che Dio – o chi per Esso – ha dotato di una sensibilità, di un’intelligenza e di una finezza tali da poter unire e avvicinare il mondo in nome della condivisione, in nome dell’Arte. Essere artisti significa esporsi, anche quando non si è autori, anche quando si raccontano storie di altri (i cantastorie medievali insegnano); mettersi a nudo di fronte ad un pubblico di sconosciuti non è semplice. La gente giudica, punta il dito, ma l’Arte abbassa le barriere dopo aver demolito le futili difese dal diverso; questo fa un artista, un artista vero.

– Torniamo sul personale. Ognuno di noi ha una storia, alcuni più rosea e altri meno, ma prima o poi tutti dobbiamo fare i conti con la sofferenza. Quale credi sia il modo migliore di affrontare le sofferenze e la vita in generale?
I più grandi autori e pensatori, le più celebri firme del panorama poetico, filosofico, psicologico, antropologico e sociologico internazionale hanno scritto sulla stretta correlazione dolore-gioia. È la doppia faccia della stessa medaglia, la medaglia del nostro percorso terreno. Senza l’uno, non potremmo conoscere l’altro. La sofferenza ci dona la possibilità di scavarci dentro, di perlustrare gli abissi, i meandri più profondi di ciò che siamo. Certo, spendere belle parole sul dolore è facile, molto meno lo è metterle in pratica, ma il dolore insegna, sempre, anche più della gioia. Credo che il dolore lasci i segni, cicatrici che sta a noi decidere se trasformare in colate d’oro come nel Kintsugi, o cercare, invano, di coprire, di mascherare con cover-up della felicità. La sofferenza lascia traccia del suo passaggio più della felicità; la felicità spesso è un miraggio, il dolore, invece, è più reale che mai. Attenzione, questo non significa che non esista gioia, ma io credo nella serenità. Credo nell’equilibrio del proprio personalissimo squilibrio personale e nel caos, nello stravolgimento delle proprie certezze. La serenità arriva lì, quando ci si conosce (anche se credo che nessuno di noi arriverà mai a conoscersi fino in fondo) a tal punto da accettarsi e, di conseguenza, accettare chiunque altro, così com’è, senza cercare di cambiarlo. Questo credo sia il modo migliore per affrontare le sofferenze, vivendole, assaporandole fino all’ultima goccia di veleno, per trovarne l’antidoto nella scoperta di sé, giorno dopo giorno.

– Adesso ti faccio una domanda banalissima, ma che personalmente è una delle più importanti che ci siano, soprattutto se viene fatta con l’interesse di saperlo e, tu lo sai, io lo chiedo solo se mi interessa saperlo.
Oggi, a 32 anni, come stai?

Wow, qualcuno ancora lo chiede (da te non me l’aspettavo, scherzo!)! Oggi, a 32 anni, sto. Ma non quello sto che spesso viene inteso come una via di mezzo (sai benissimo che non ne ho e non he mai avute), ma quello sto che significa “ci sono”, “sono presente a me stessa”. Sto con me, ho imparato a starci, a conviverci, a convivermi. A volte faccio ancora fatica a sopportarmi, ad accettarmi, ma cerco sempre di capire cosa non va in me, di migliorare quando e dove posso e di consapevolizzarmi e responsabilizzarmi ove non posso evolvere. Molti limiti sono fatti per essere superati, altri, per ricordarci la nostra natura umana, meravigliosamente eroica da un lato e ugualmente straordinaria nella sua accezione fallimentare; una natura umana che, se non è condivisa con gli altri, rimarrà sempre fine a se stessa.

Ti va di dare un consiglio o semplicemente un messaggio a chi leggerà questa intervista?
Non amo dare consigli, se non quello di vivere appieno ogni momento: momenti di delusione e frustrazione, momenti di enfasi e carica a mille, momenti di equilibrio e momenti di squilibrio. Ogni singolo istante merita di essere assaporato con le papille dell’anima e il gusto del cuore.

Quali caratteristiche deve avere un artista per poter avere la possibilità di fare successo?
Essere se stesso, non emulare i suoi idoli, ma, da questi ultimi, attingere per trarre qualcosa di personale da condividere con il mondo. Poi bè, un team competente alle spalle, una determinazione indomita e quella fortuna che, credetemi, prima o poi arriva a chi merita.

Siamo arrivati a fine intervista… Domanda a scelta. 
C’è qualcosa che non ti ho domandato ma che avresti voluto ti chiedessi? Puoi farti una domanda e risponderti.
Qual è stata l’intervista più bella della tua vita?
Questa, senza dubbio 😉

Dove tutto iniziò… 

 

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