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Nuova recensione scritta dal nostro Massimo Comi, ci parla del primo brano di Al Vox, distribuito da PaKo Music Records. Un brano straordinario e significativo, “Il Giullare”.
Racconta la canzone punto per punto, spiegandola attraverso il suo punto di vista.
Trovate il brano su tutte le piattaforme e nelle nostre playlist.

Leggendo il titolo di questa canzone, ammetto di aver pensato fin da subito che la stessa sarebbe stata divertente, gioiosa, portatrice di serenità, e che mi è venuto ancora in mente il buon Caparezza, con il suo modo di cantare e rappare clownesco, circense, quasi irridente.

Invece, si tratta di un brano molto dolce e malinconico, quasi fatale nel suo svilupparsi, con il quale Al Vox dà prova di un grande talento cantautoriale, perché è riuscito a riportarmi alla mente i grandi nomi della scuola appunto cantautoriale italiana, uno su tutti Fabrizio De André.

La canzone si pare con le note quasi strazianti di un pianoforte, che mettono da subito alla prova la capacità di emozionarsi dell’ascoltatore, e alle quali si affianca per qualche momento il suono di una fisarmonica, il quale riesce quasi a rendere ancora più tristemente dolce l’atmosfera generale e mi ha riportato alla mente per un attimo quei tanghi argentini fortemente connotati alla malinconia, unita alla soavità di un incontro d’anime, sulle note leggere e volatili di uno degli strumenti tipici di quella nazione.

La voce del nostro cantautore non può dunque far altro che adeguarsi a questa rimbombante mancanza di riferimenti certi, a questa tristezza di fondo: egli sembra raccontare una storia che lo coinvolge molto dal punto di vista emozionale, a cui partecipa con vivo trasporto e alla narrazione della quale sembra dedicare tutte le proprie risorse ed energie emozionali, in una profonda identificazione, che lascia l’ascoltatore quasi paralizzato, senza la capacità di replicare.

Il testo è molto evocativo e pregno di immagini, di fantasia e creatività, caratteristiche queste che appartengono in pieno ad Al Vox e che ha dimostrato molte volte di possedere in quantità industriale. Si viene trasportati quasi molto indietro nel tempo, in un Medioevo in cui un bardo dalla voce rotta dall’emozione declama dei versi come se si trattasse di una poesia triste.

Il primo verso sembra infatti proprio declamato da un bardo, che annuncia al popolo che è arrivato il Giullare e che bisogna fargli largo: il suo compito è quello di rendere più liete le giornate, anche se il suo animo, celato dietro al trucco, si sente triste, perché, nonostante riesca spesso a strappare un sorriso a tutti quelli che assistono alla sua esibizione, è consapevole del fatto che viene deriso, che fa ridere perché interpreta il ruolo di un perseguitato dalla sfortuna, a cui ne capitano di tutti i colori, senza che abbia la forza o la voglia di reagire.

L’autore sembra poi fornire una descrizione di contorno, per dare un’ambientazione e collocare nello spazio la storia che sta raccontando: la sua critica sembra rivolta alla classe cosiddetta “borghese”, perché parla di “colori fatiscenti”, che quindi hanno perso tutta la loro luminosità, i quali sembrano appartenere alle vesti appunto dei borghesi, ma anche dei decadenti, che si tratti di poeti, artisti o musicisti. Il Giullare non si esibisce per soldi o con uno spirito ipocrita, che cela dietro alla falsità di un sorriso una tristezza infinita e che pare sottolineare la scarsa voglia che ha di essere deriso da tutti per la sua buffonesca abilità, la mancanza di spirito di ribellione, di uno spirito anarchico, che gli possa consentire di dettare per una volta lui le regole del gioco.

Il suo pubblico sembra godersi lo spettacolo fra un bicchiere e l’altro, che fa diventare la sua capacità di comprensione sempre più flebile e debole, esaltando lo spirito derisorio, sotto un cielo le cui nuvole sembrano dipinte da un pittore: l’attenzione quindi sembra scemare mano a mano che trascorre il tempo, ma il nostro Giullare ha la forza per resistere e per esibirsi comunque, nonostante sia consapevole di questo.

Il tono della voce di Al Vox si fa poi più sostenuto, perché sembra proprio immedesimarsi nella figura del bardo che annuncia con un timbro più forte ma allo stesso tempo disilluso che tutte le persone che nella società non vengono considerate, ma che anzi vengono emarginate, devono accorrere per assistere allo spettacolo, forse per trovare un po’ di consolazione, vedendo un personaggio che sembra passarsela ancor peggio di loro. Il richiamo però viene fatto anche a quelli che sembrano dei nobili decaduti, il cui sangue è stato consacrato nel potere e nella nobiltà, ma che ora vengono considerati al pari dei “figli di Nessuno”. Il Giullare, come detto, è triste, ma si esibisce comunque.

La linea melodica sembra poi assumere una forza maggiore, perché al suono del pianoforte viene accostato un effetto elettronico che crea aspettativa e pathos: la malinconia della vocalità sembra farsi un po’ meno profonda, e, per tutta la notte, il Giullare parlerà con un linguaggio fatto di immaginazione e con lo sguardo verso l’alto, rivolto alle stelle, la cui luce però appare opaca, perché filtrata dalle coperte sgualcite sotto le quali si trova a dormire, probabilmente per la strada, perché non ne ha trovate di migliori, dato che non ha nemmeno i soldi per comprarsi qualcosa che lo protegga dal freddo della notte, cosa che lo deprime, gli toglie dignità e lo fa entrare nel circolo dei decaduti a cui dedica il proprio spettacolo. Tutto questo è sottolineato da un tono di voce che appare ancora più disperato, malinconico e straziante, nonostante le parole vengano declamate con maggior forza.

Dopo questa triste rappresentazione, Al Vox sembra parlare all’ascoltatore, con delicatezza e con amarezza, dicendo che il Giullare non vuole più esibirsi per una ricompensa che ritiene per lui troppo esigua, ma che allo stesso tempo si rivela essere vitale: un granello di pane da mangiare, uno spicchio di sole per scaldarsi. Questo lo porta a sprofondare sempre più in basso, a crollare senza riuscire a rialzarsi.

Successivamente, la canzone assume più carattere, perché entra un altro strumento, anche se per poco, cioè la chitarra elettrica, dal cui suono il nostro bardo sembra attingere una rinnovata energia, testimoniata anche dal beat di batteria che prende maggior consistenza: si ripete il richiamo ad accorrere, perché, nonostante sia triste, il Giullare si esibisce lo stesso. Entra a questo punto un elemento nuovo, quello delle campane, che però non suonano a festa, ma che anzi sembrano essere suonate dal Giullare stesso, con un effetto tristemente stonato e disperato: questa immagine mi ha un po’ riportato alla mente la figura di Quasimodo, il Gobbo di Notre Dame, anche lui deriso ed emarginato come il nostro Giullare.

Gli ultimi versi, se ce ne fosse ancora bisogno, contribuiscono a rendere più malinconica l’atmosfera di contorno, perché si dice che quella sera sarà l’ultima in cui il Giullare si esibirà: non viene chiarita la fine che il protagonista della canzone farà, se morirà di stenti o se cambierà vita, ma una conclusione triste sembra la più probabile. Queste ultime parole lasciano poi spazio a una struggente sequenza di pianoforte, che va in calando man mano che prosegue, accompagnata da alcune note di chitarra elettrica, anch’esse appena accennate e debolmente presenti, in una rappresentazione che mette nell’ascoltatore una tristezza infinita e un senso di incompiutezza, perché, come detto prima, non viene spiegata la fine che fa il Giullare.

Al Vox riesce ancora una volta a stupire, offrendo all’ascoltatore una dolce e struggente ballata, caratterizzata dalla presenza preponderante del pianoforte e della voce, con l’accompagnamento rarefatto della chitarra elettrica e della fisarmonica. Il nostro cantautore è capace di destreggiarsi tra diversi tipi di canzone, mantenendo sempre intatta la propria vena critica e sferzante, che questa volta appare rivolta alla persone che si ritengono nobili, ma che in realtà sono decadute e trovano un illusorio sollievo nel prendere in giro e nel non prendere sul serio una figura che non ha niente, che si esibisce per qualche granello di pane, che non riesce più a sostenere un tale stile di vita, della cui fine non si parla nemmeno.

Secondo me non è possibile non restare affascinati da questo brano, perché il nostro cantautore trova il coraggio di rivolgersi al suo pubblico in modo insolito rispetto al tipo di musica che va ora per la maggiore in Italia, con una canzone dai toni spiccatamente cantautoriali, poetici e immaginifici, quasi sognanti e molto opachi, indefiniti, in dissolvenza.

Abbiamo un brano che fa pensare, che va in profondità, che usa la figura del Giullare e del suo pubblico, come se fossimo proiettati nel Medioevo, per fare una critica alla società odierna, che lascia ai margini le persone che vivono per la strada e fanno di tutto per avere in cambio un sorriso, un gesto di considerazione per il proprio impegno, per la propria esibizione, che ostentano allegria, nonostante siano molto tristi dentro di sé.

Consiglio vivamente quindi di ascoltare questa canzone, anche per l’accurata produzione e la capacità di scegliere i suoni adatti e di accompagnarli attraverso la vocalità.

Al Vox è un artista che mette in musica e parole i propri stati d’animo, rivelandosi un autore sensibile, dalla personalità dolce e amichevole, capace di andare incontro all’ascoltatore e di comunicargli un messaggio ogni volta diverso, utilizzando una linea melodica e vocale sempre nuova e varia, a dimostrazione del proprio talento.

Ho già avuto modo di ascoltare le canzoni del suo precedente album, e ne sono rimasto affascinato: tutta la sua produzione è ricca di significati e immagini nascoste, che sta all’ascoltatore cercare di trovare e decifrare.

E’ poi chiaro che ognuno può vederci un significato diverso, ma questo è il bello della musica, che suscita emozioni e impressioni diverse in persone diverse, creando una condivisione di stati d’animo e una discussione sul significato della vita e della nostra presenza in questo Mondo.

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PaKo Music Records

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